La Suprema Corte di Cassazione, con sentenza n. 18429 del 18/09/2015, ha stabilito che il recesso del lavoratore motivato da un carico di lavoro eccessivo e da un ambiente di lavoro stressante integra una ipotesi di dimissioni per giusta causa, dando pertanto diritto al dimissionario di percepire l’indennità sostitutiva del mancato preavviso nel caso di rapporto di lavoro a tempo indeterminato.
Ai sensi dell’art. 28 del D.Lgs. 81/2008 lo stress lavoro-correlato può essere definito tecnicamente non come una malattia (né, ovviamente, un infortunio), ma ne può rappresentare la causa, previa accurata dimostrazione probatoria del nesso causale tra i due eventi.
Non a caso esso è oggetto di valutazione e prevenzione alla stregua di tutti gli altri rischi connessi con l’attività lavorativa, specifici o generici, che vanno pertanto documentati nel documento di valutazione dei rischi (DVR) a cura del datore di lavoro.
L’art. 2087 c.c., infatti, pone a carico del datore di lavoro (persona fisica o giuridica) l’obbligo di assicurare condizioni di lavoro rispettose della integrità fisica e della personalità morale dei prestatori d’opera. Nonostante i progressi della tecnica, dell’organizzazione e gestione del lavoro e della medicina, ad oggi manca una chiara definizione giuridica delle casistiche cui fare riferimento per individuare con certezza le sollecitazioni negative sull’integrità dei lavoratori connesse alla vita lavorativa.
La sentenza della Suprema Corte interviene proprio a chiarire il nesso causale tra ritmi lavorativi insostenibili e conseguente sindrome ansiosa da stress per iperattività lavorativa, al verificarsi della quale il lavoratore, non potendo proseguire nemmeno provvisoriamente il rapporto di lavoro, può esercitare il diritto di interrompere in tronco la sua prestazione lavorativa, a prescindere dal mancato rispetto delle norme di legge (ad esempio, in tema di orario di lavoro o diritto alle ferie).