Oggi è lunedì, e per molti dipendenti riprendere la settimana lavorativa non è sempre così semplice ed entusiasmante dopo un weekend di relax.
L’incertezza su come si svilupperà la settimana, il timore di non essere produttivi ed all’altezza delle aspettative del capo, di sbagliare qualcosa, o semplicemente la previsione di passare tante ore sul proprio posto di lavoro senza fare qualcosa di nuovo o di stimolante spengono a poco a poco la motivazione e l’energia che potenzialmente ogni uomo potrebbe investire in quello che fa.
“Il lavoro rende liberi” c’era scritto all’ingresso di Auschwitz. ”….col sudore della tua fronte mangerai il pane..” recita il sacro libro della Genesi. Oggi, forse, chi può lavorare deve pure rendere grazie, considerando il periodo di crisi che stiamo tutti attraversando!
Ma si può essere felice facendo quello stesso lavoro che ci rende liberi e che ci consente di guadagnarci da vivere? Assolutamente si.
Molte persone coltivano dentro se stesse la malsana convinzione che lavorare equivalga a dire sacrificare la propria gioia di vivere che viaggia di pari passo con la signora assunzione di responsabilità.
Ma quanto volentieri siete capaci voi di mangiare una pietanza che già pensate vi appesantirà, al punto da cominciare a fare indigestione ancor prima di ingerirla? Così facendo forse non sarà possibile nemmeno apprezzarne il sapore né l’odore, la butteremo giù…semplicemente perché serve a nutrirci. Inchiodare nel qui ed ora le sensazioni, buone o cattive, che proviamo mentre ci dedichiamo a qualsivoglia attività è fondamentale per allenarci ad essere felici e soddisfatti.
Tendere alla felicità è un processo naturale, così come lo sono il bisogno di appartenere, di affermarsi, di conoscere e di crescere. Ogniqualvolta tali desideri non si realizzano, però, ecco che l’individuo si arrabbia e vive una frustrazione, così molte persone hanno rinunciato alla gioia di vivere, adottando la strategia dell’”evitare i danni e non farsi vedere”.
Maslow ci insegna che “soddisfatti i bisogni materiali, di sicurezza e sociali, si affaccia alla finestra la voglia di stima, status e autorealizzazione”. Investire sul lavoro, dunque, significa investire anche su se stessi…ma quanto siamo disposti a rischiare per ri-uscire? Ri-uscire significa esplorare strade nuove, abbandonare la calda e sicura tana dell’”esperienza”. Per ri-uscire bisogna essere disposti a rischiare di assumere un atteggiamento diverso a quello che siamo stati per anni, a partire dalla nostra infanzia, abituati a seguire. Rischiare di disobbedire al nostro Genitore interno che forse ci ha condizionato quando eravamo piccoli, lanciandoci messaggi su “cosa dovevamo fare” per essere considerati ok: “sii forte! Sii perfetto! Compiaci! Sbrigati! Sforzati!” A tali messaggi, detti “spinte”, si contrappongono poi altri messaggi comunicati attraverso canali non verbali, attraverso cui le nostre figure genitoriali ci lasciavano intendere come dovevamo essere per essere considerati ok, come ad esempio: non essere intimo, non essere te stesso, non sentire le emozioni, non pensare, non crescere.
Un percorso di counselling consente di comprendere in che modo questi messaggi verbali e non verbali influenzano ancora oggi il modo di interagire con il mondo, soprattutto nell’ambiente lavorativo, mettendo in luce i meccanismi che bloccano un individuo lungo il suo processo di autorealizzazione, a partire dalla individuazione di un progetto fino alla sua riuscita.
A volte non è necessario cambiare quello che si fa, ma può essere sufficiente cambiare il modo di farlo.